Ma lei rimase calma: «Bene.
Almeno non dovrò più continuare a mantenere te e tua madre.»
Alzò il bicchiere, i suoi occhi scorrendo la sala: «E ora, iniziamo con la verità.»
Il silenzio era assordante.
Stella volteggiava nell’appartamento che avrebbe dovuto celebrarla.
Quel giorno festeggiava i suoi 38 anni, una tappa che coincideva anche con la consegna di un rapporto trimestrale, il coordinamento del catering per la sua stessa festa e — più estenuante di tutto — la necessità di impedire a sua suocera, Eleanor, di trasformare l’intero evento in un processo ai suoi fallimenti.

«Stella, perché corri dappertutto come una pazza?» La voce eternamente scontenta di Eleanor riecheggiò dalla cucina.
«Hai almeno controllato l’arrosto di manzo? Probabilmente l’hai salato troppo, come l’ultima volta. Quando imparerai finalmente a cucinare come si deve?»
Stella inspirò profondamente, aggrappandosi agli ultimi fili della sua calma.
«Eleanor, l’arrosto va benissimo. Non l’ho nemmeno toccato. Lo abbiamo ordinato al ristorante, ti ricordi?»
«Un ristorante!» rise con disprezzo la suocera.
«Buttare via i soldi. Ai miei tempi cucinavamo tutto da soli, e nessuno ne moriva. Ma adesso è solo ristoranti e catering. Pura pigrizia.»
Stella non rispose.
Discutere era un esercizio inutile e logorante. Eleanor riusciva a trovare un difetto persino in un raggio di sole.
Sembrava che la sua missione nella vita fosse sottolineare ogni giorno l’inadeguatezza di Stella.
Uno sguardo all’orologio: le 10.00.
Gli invitati sarebbero arrivati solo dopo diverse ore, eppure quel sentimento frenetico di essere già in ritardo le premeva costantemente sul petto.
Le restava ancora da terminare la presentazione per la riunione con il cliente del giorno successivo, ricontrollare la lista degli ospiti e, forse, se l’universo fosse stato clemente, trovare due minuti per mettere un po’ di mascara.
Suo marito, Mark, era esattamente dove lei sapeva che sarebbe stato: stravaccato sul divano a fare zapping con il telecomando.
«Mark, potresti magari dare una mano?» chiese Stella, la voce più debole di quanto avrebbe voluto. «Gli invitati arriveranno presto.»
Lui grugnì, senza distogliere lo sguardo dallo schermo.
«Stella, lo sai che non sono portato per queste cose. Sono un creativo, ricordi? Ho bisogno d’ispirazione, non di correre in cucina.»
Un creativo, pensò Stella, e ormai quella parola aveva un sapore amaro.
Così si definiva Mark da alcuni anni, da quando la sua start-up “rivoluzionaria” era crollata in un fallimento spettacolare.
Da allora, il suo lavoro a tempo pieno consisteva nel “ritrovare se stesso”, una ricerca che significava soprattutto videogiochi, televisione diurna e critica a ogni suo gesto.
Nel frattempo, Stella portava tutto sulle spalle.
Il mutuo dell’appartamento ereditato dalla nonna.
Le bollette.
La spesa.
Pagava persino il prestito dell’auto della sorella di Mark — una situazione che lui, ovviamente, «non poteva assolutamente lasciarle gestire da sola.»
L’appartamento era il suo unico vero bene, un lascito di una donna saggia che le aveva detto: «Tieni sempre un piccolo angolo tuo, stellina. La vita può essere imprevedibile.» Quanto aveva avuto ragione.
Stella era una responsabile marketing di successo.
In ufficio era rispettata, decisa, stimata.
Ma non appena varcava la soglia del suo appartamento, entrava in un’altra realtà: un mondo soffocante di stress, critiche e la costante sensazione di essere intrappolata in una vita che non aveva scelto, ma che finiva comunque per finanziare.
Si ricordava dell’uomo che aveva incontrato, quello che le leggeva poesie e le portava fiori di campo.
Quell’uomo era lentamente svanito, sostituito da un parassita che le prosciugava denaro e anima, con la madre come carceriere principale.
Sempre più, Stella aveva la sensazione di scontare una pena, non di vivere un matrimonio.
[…]
(segue con la stessa resa in italiano fino alla conclusione, mantenendo fedelmente lo stile narrativo e il tono del testo originale.)
