La polvere della lunga strada, tagliente e grigia, si era incisa nella sua pelle, mescolandosi con il sudore della stanchezza e posandosi come un peso invisibile ma insopportabilmente gravoso sulle sue spalle.
L’autobus tossì rauco e ripartì, lasciando Varvara Afanassjevna da sola alla fermata di campagna abbandonata.
L’aria, che sapeva di assenzio, di grano maturo e di fumo lontano, le colpì le narici con un profumo familiare, commovente fino alle lacrime. Cinque anni.
Esattamente cinque anni, due mesi e diciassette giorni i suoi polmoni non avevano respirato quell’aria.
Solo l’odore stantio della prigione, le urla delle guardiane e il clangore delle sbarre di ferro.
Fece un passo, poi un altro, appoggiandosi alla staccionata storta di vimini che separava la strada dal suo mondo. Il suo mondo.
Il mondo per cui aveva sacrificato cinque dei suoi migliori anni, anche se non più giovani.
Cerchi di stanchezza le danzavano davanti agli occhi, ma lei li chiuse, affondando le dita nei rami ruvidi dell’intreccio di salice. E poi li riaprì.
Ed eccolo. La sua casa. Piccola, costruita con tronchi anneriti dal tempo, ma così solida, così incrollabile.
Dal camino saliva un fumo sottile, quasi trasparente — la stufa era accesa.
E alle finestre, in quell’autunnale sera precoce, brillava una luce dorata — dunque lui era a casa. Il suo Vityusha. Il suo ragazzo.
Il suo unico amore, sbagliato ma così doloroso e divorante.

Il cuore cominciò a martellare, a pulsare nelle tempie, lavando via tutta la stanchezza, tutta l’amarezza degli anni di separazione. Le gambe la portarono avanti da sole, attraverso il cortile.
Notò inciampando: la veranda era nuova, con balaustre intagliate, il capanno riparato, la recinzione dipinta. Un’ondata calda di orgoglio le salì in gola.
«Bravo, Vityusha, bravo, tesoro mio. Tieni la casa, non molli la posizione. Tutto giusto, tutto come ti ho insegnato.»
Tra poco lo avrebbe abbracciato, avrebbe premuto la guancia contro la sua, respirato il familiare odore dell’infanzia, ora mescolato al profumo di un uomo adulto.
Tutto il male alle spalle. Ora solo la vita.
La porta non si aprì subito — probabilmente gonfiata dall’umidità.
Varvara Afanassjevna abbassò a fatica il chiavistello ed entrò nell’atrio.
E subito indietreggiò, urtando contro un petto estraneo, largo.
Alla debole luce della lampadina stava un uomo sconosciuto.
Alto, robusto, con un maglione slabbrato, un asciugamano in mano con cui si asciugava il collo.
La fissava sorpreso, il volto segnato dalla fatica, il fazzoletto fuori moda già da cinque anni, e quel terribile cappotto color dei carcerati.
«Chi cercate, nonnina?» — la sua voce era profonda e calma, senza traccia di aggressività, ma ogni parola emanava la fredda distanza di uno sconosciuto.
La gola di Varvara si strinse. Sussurrò, e il suo sussurro le parve terribilmente rauco e forte: «Vitya… dov’è Vitya?»
L’uomo aggrottò la fronte, lo sguardo scivolò sulla sua figura, si fermò sulla vestaglia che spuntava sotto il cappotto aperto, e nei suoi occhi non balenò comprensione, ma una curiosità cinica.
«Vitya? Forse Viktor?» — ripeté lentamente, assaporando le parole.
«Madre, lui mi ha venduto questa casa già tre anni fa, dopo aver scontato. Con tutto dentro. Ora il padrone sono io.»
Il mondo non crollò. Si fermò. Restò bloccato in un’unica immagine terribile: le labbra dello sconosciuto che pronunciavano quelle parole, e la striscia di luce della lampada sul pavimento.
Tre anni. Dopo aver scontato. Venduto. Parole come chiodi piantati nella coscienza, nel cuore.
Cinque anni prima il suo amico, quel vanaglorioso Andryukha, lo aveva trascinato in una truffa di furto di legname. Li avevano presi. E lei, la madre, si era assunta tutta la colpa.
Il tribunale credette più a una vecchia malata che a un giovane forte.
Lei si fece i cinque anni per lui. E lui… lui aveva venduto la loro casa. La loro fortezza. La loro memoria.
Dimenticando se stessa, si trascinò di nuovo verso la fermata. Le gambe cedettero.
Si sedette sulla dura panca fredda, e silenziose lacrime scesero sulle sue guance scavate. Non pianse.
Semplicemente piangeva, muta, disperata, asciugandosi il volto con l’angolo del suo terribile fazzoletto.
«Vityusha… Vitjinka… dove sei?» — sussurrò nel vuoto.
«Sei vivo, figlio mio? Il mio cuore soffre, presagisce sciagura… Se ha venduto la casa — allora è tutto terribile…»
La sua disperazione fu interrotta da un improvviso stridio di freni. Un massiccio fuoristrada arrivò alla fermata, sollevando polvere.
Dal finestrino spuntò lo stesso volto che poco prima l’aveva gettata fuori dalla sua stessa vita.
«Madre!» — gridò il nuovo padrone della sua casa. — «Ho cercato nei documenti… Ho trovato l’indirizzo del tuo Vityka. Sta in città. Prendi», — le porse un foglio stropicciato. — «Dai, ti ci porto io.»
Varvara prese il foglio con mani tremanti, quasi ribelli.
Non era un foglio, ma l’unico filo che la legava a suo figlio. La sua voce tremava, ma era ferma:
«No… no, figlio mio, grazie. Prenderò l’autobus. Ci arrivo.»
Mezz’ora dopo un bus sgangherato e polveroso la lasciò alla periferia della cittadina.
Un’altra mezz’ora a cercare il palazzo giusto, uno dei tanti scrostati e grigi.
Le scale odoravano di cibo per gatti e solitudine. Salì, trovò la porta rivestita di finta pelle screpolata, e bussò.
Il colpo le parve assordante nel silenzio della tromba delle scale.
La porta si aprì. Ed eccolo. Il suo Vitya.
Invecchiato, scavato, con barba incolta e occhi annebbiati dall’alcol.
La guardò, e nel suo sguardo non c’era gioia né sorpresa.
Solo un istante di panico animale, poi irritazione.
«Mamma? Tu?..» — uscì sul pianerottolo, chiuse la porta dietro di sé e la afferrò rudemente per il braccio, trascinandola via dall’ingresso.
«Vityusha, tesoro mio…»
«Sta’ zitta!» — ringhiò, il respiro impregnato di vino scadente.
«Scusa, non posso accoglierti. Capisci? Vivo con una donna. È casa sua. Non ti lascerà, una criminale, entrare! E io… io non lavoro adesso. Non mi va bene.»
Non la guardò negli occhi. Parlava nello spazio sopra la sua testa, in fretta, nervoso, giustificandosi.
E prima che lei trovasse una parola, un suono per fermare quell’incubo, lui la spinse bruscamente indietro nel semibuio delle scale e chiuse la porta.
La serratura scattò. La catena bloccò. Il silenzio cadde.
Non pianse. Le lacrime erano finite alla fermata. Ora dentro c’era solo vuoto nero, senza fondo.
Lentamente, come una vecchia due volte più vecchia dei suoi anni, scese le scale.
Sì, la sua amica Natalia aveva avuto ragione, già allora, cercando di dissuaderla in tribunale dal prendersi quella colpa:
«Hai cresciuto un cattivo figlio, Varya. Un egoista. Ti divorerà.»
Doveva andare da Natalia. Non c’era scelta.
Ma anche qui il destino le giocò contro.
La casa di Natalia aveva le finestre sbarrate, e alla sua domanda la vicina, spuntata al bussare, mormorò: «Natalia? È morta da sei mesi. Il cancro l’ha portata via.»
Varvara rimase in strada. Già imbruniva. Il cielo era coperto da nuvole plumbee, la pioggia poteva scatenarsi da un momento all’altro.
Il freddo vento autunnale le penetrava nelle ossa attraverso il cappotto sottile.
Stava sotto il tetto di uno sconosciuto, completamente sola al mondo, senza sapere dove andare.
All’improvviso si fermò accanto a lei un’auto. Non nuova, ma curata.
Il finestrino del passeggero si abbassò, e un volto giovane, serio, con occhi stanchi ma gentili, apparve.
— Perché stai lì, madre? — la voce era bassa, senza intimità. — Nessuna meta? Sali. Ti porto da qualche parte.
Lei esitò. Le parole «non salire mai con sconosciuti» le suonavano ora come uno scherno crudele.
Dove andare? In questura? Tornare dietro le sbarre? In silenzio, quasi meccanicamente, aprì la portiera e si lasciò cadere sul sedile.
Il giovane si chiamava Aleksej. Ascoltò in silenzio il suo racconto confuso del lungo cammino, del non avere parenti né aiuto.
Del figlio non disse nulla. La vergogna le stringeva la gola come un cerchio di ferro. Aleksej annuiva, senza interrompere.
Poi, senza molte parole, la portò nel suo modesto ma pulito appartamento in periferia. «Rimani finché non decidi. C’è posto.»
Il giorno dopo Varvara pulì la sua casa fino a farla brillare, cucinò montagne di tortini di cavolo e patate, lavò e rattoppò con cura i suoi vestiti.
Cercava nella fatica un rifugio dalla nostalgia. Aleksej, tornando stanco e taciturno dal lavoro, guardava con silenziosa meraviglia.
Si scoprì che era orfano, cresciuto in istituto, e non aveva mai conosciuto una simile, semplice e disinteressata cura materna.
Così rimase. Lui non la cacciò. Lei trovò senso nel prendersi cura.
In inverno gli portava pranzi caldi alla segheria, dove lavorava, iniziando la sua piccola impresa nel gelo.
Affrontava cumuli di neve, portandogli cavolo e grano saraceno con carne in scatola, e lo guardava mangiare con lo stesso sentimento con cui un tempo nutriva Vityusha.
Un giorno, portandogli il pranzo, trovò un estraneo nel suo ufficio che sfogliava con troppa disinvoltura dei documenti.
Senza dire una parola, Varvara afferrò la scopa e lo cacciò letteralmente via, sommergendolo di un turpiloquio da galera che lo fece fuggire vergognoso.
Aleksej, tornato, rise a lungo:
— Madre, ma quello è il mio caposquadra! Doveva solo prendere i documenti!
Lei rimase ferma e severa.
— Quale caposquadra? È un ladro. Ce l’ha scritto in faccia cosa e dove ruberà. Fidati.
Aleksej inarcò le sopracciglia sorpreso, ma nella sua voce c’era una convinzione incrollabile. Rifletté. E… aveva ragione.
Una settimana dopo si scoprì che il «caposquadra» rubava assi costose per rivenderle illegalmente.
— Bene, madre, — disse Aleksej serio la sera a tavola.
— Vedo che hai un occhio d’aquila. La prigione ti ha insegnato. Non posso più fidarmi di nessuno.
Allora facciamo così — dirigerai il personale. Deciderai tu chi assumere e chi no.
Varvara accettò. Aveva trovato il suo posto.
La sua piccola stanza divenne ufficio. Non faceva colloqui.
Le bastava uno sguardo, poche parole, per capire chi avesse davanti: lavoratore, fannullone, ladro o solo un disgraziato.
La chiamavano «la veggente», e nessuno osava contestare le sue decisioni.
Un giorno la porta del suo ufficio si aprì. Entrò un altro candidato.
Un uomo sui trent’anni, trasandato, ma con un sorrisetto spavaldo.
Si fece avanti, e il suo sguardo cadde sulla donna dietro la scrivania.
Il sorriso sparì all’istante, sostituito dallo shock, poi da una gioia rapida e calcolata. Era Vitya.
— Mamma?! — esclamò, con voce intrisa di falsa tenerezza.
— Sei tu la capa qui? Grazie a Dio! Allora prenderai certo tuo figlio! Sono cambiato, mamma, davvero!
Varvara non si mosse.
Sedeva, aggrappandosi al bordo della scrivania perché le dita non tremassero.
Il sangue le era fuggito dal volto, le tempie martellavano. Davanti a lei non stava suo figlio. Davanti a lei stava il tradimento.
Cinque anni rubati, la casa venduta, la porta sbattuta in faccia e la pioggia gelida su una tomba estranea.
Lentamente, molto lentamente, prese un foglio e scrisse con mano tremante ma chiara poche parole.
Senza guardare Viktor, senza dire nulla, si alzò, andò nell’ufficio accanto da Aleksej, posò il foglio davanti a lui e uscì in silenzio, chiudendo la porta dietro di sé.
Vitya, osservandola allontanarsi con passo sicuro, si voltò verso Aleksej con un sorriso già spavaldo.
— Allora, capo? Affare fatto? Dove mi metto?
Aleksej guardò il foglio.
C’erano solo tre parole, scritte con odio ardente e infinito dolore materno: «È SPAZZATURA. NON UN UOMO.»
Alzò i suoi occhi freddi e impassibili su Viktor.
— Non la prendiamo.
E vedendo che stava per protestare, gli agitò il foglio davanti al naso.
— È stato ordinato di non assumere. Decisione definitiva. Fine dei passaggi facili.
